La storia del referendum sull’acqua
Sette anni ed una crisi economica hanno portato ad un forte incremento dell’utilizzo dell’acqua potabile, con la scelta dell’acqua di rubinetto per bere che è salita dal 70,4 al 75,5%. Questo ciò che emerge da una ricerca di CRA Nielsen in collaborazione con Aqua Italia, una associazione che unisce sotto di sé tutte le imprese che si occupano del trattamento delle acque primarie. E si tratta di acqua che, dopo il referendum sull’acqua del giugno 2011, in cui sono state abrogate le leggi che parlavano di una sua privatizzazione, sarebbe dovuta passare dalle società private al settore pubblico.
Un passaggio che però è divenuto un lento stillicidio, fatto di ricorsi in Cassazione, decreti legge, vuoti normativi e ricorsi al TAR.
A promuovere l’iniziativa del passaggio alla gestione pubblica delle acque c’era il Forum Italiano dei movimenti per l’acqua, al quale aderiscono reti nazionali, enti locali e sindacati, che ha combattuto perché l’acqua potesse divenire pubblica. Storica la vittoria del 2011, che ha portato ben 27 milioni di aventi diritto a votare per il referendum sulla privatizzazione dell’acqua, grazie al quale l’acqua, adesso, può esser considerata un bene pubblico. Ma nel breve periodo questa modifica non ha portato molti risultati.
In passato, infatti, per quanto riguarda le tariffe si pagava fino al 7% del capitale investito dai gestori. Col passaggio alla gestione pubblica, invece, questo 7% è stato rinominato: sparita la voce “remunerazione del capitale investito”, infatti, è nata la voce “oneri finanziari”, con la stessa percentuale, più o meno come era accaduto coi rimborsi elettorali. E su questo punto, il Forum aveva fatto ricorso direttamente al TAR, vincendolo.
Fra i comuni che hanno recepito per primi il referendum si ha il Comune di Napoli: la ARIN S.p.A., che prima gestiva il servizio idrico, è stata trasformata nella ABC – Acqua Bene Comune, azienda pubblica. E, a ruota, ha preso la medesima via il Lazio.
Ma, in realtà, l’acqua adesso costa il 9% in più rispetto ad anni fa, con le perdite che sono stimate a circa due miliardi e mezzo di metri cubi all’anno, ovvero il 30% sul totale. E con l’autorizzazione alla revisione delle tariffe, concessa dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico – realizzata per favorire gli investimenti delle aziende che, però, devono essere municipalizzate si sono visti degli aumenti nelle bollette che rasentano l’assurdo: il 3,9% in più nel 2014 e ben il 4,8% in più nel corso del 2015, che porteranno ad un incremento di 130 euro per singola bolletta all’anno, raggiungendo un totale di 4,5 miliardi di euro.
Intanto, il panorama che possiamo osservare sulla faccenda vede avverarsi il modo di vedere sia dei favorevoli alla privatizzazione, sia i contrari. Da un lato, chi voleva (e ha ottenuto) che l’acqua divenisse un bene pubblico ha visto sparire gli investimenti privati nel settore idrico italiano, perché chiaramente nessun investirebbe andrebbe a impiegare i propri capitali in un settore nel quale sa di non poter ricevere una remunerazione. Dall’altro lato, invece, chi voleva la privatizzazione e temeva che, se questa non fosse stata ottenuta, sarebbero stati solamente fermati gli investimenti. E ciò, chiaramente, è avvenuto. Ma è un triste esito, visto che abitiamo in una nazione dove si hanno dei picchi di dispersione dell’acqua distribuita pari al 50% nel sud, e in cui il 15% della popolazione vive in zone prive di rete fognaria. E, soprattutto, alla luce delle parole del presidente dell’ Autorità per l’energia elettrica e il gas, che parla di una necessità di 65 miliardi di euro nei prossimi trent’anni per avere un servizio idrico degno di questo nome.